Il racconto sulla crisi finora ci ha consegnato l'immagine di piccoli imprenditori sospesi fra una silenziosa crisi di nervi e una stentorea querula lamentazione. Negli ultimi mesi si è costruito un discorso pubblico fondato su due elementi: nessuno li capisce e loro sono pieni di rabbia. Ma bisogna superare l'immagine stereotipata e un po' livida del piccolo imprenditore che prima non era ammesso nemmeno nelle basse cucine e adesso viene vezzeggiato e blandito dagli "amici dell'ultima ora", eterni Gatto e Volpe. Ma chi realmente compone questo «oscuro volgo che nome non ha»? La narrazione, a questo punto, ha bisogno di un salto di qualità. La crisi è dura e dolorosa. E, da essa, emergerà una nuova generazione di piccoli e medi imprenditori, per cui l'innovazione non è un flatus vocis e l'internazionalizzazione non rappresenta una lezione della London School of Economics, ma un tratto essenziale della loro esistenza. Personaggi da romanzo, che come scriveva Balzac «hanno la testa nel cuore». E che, non soltanto con le loro visioni industriali, ma pure attraverso il loro rapporto con la società, stanno costruendo un nuovo paradigma civile e competitivo. Vendono ovunque, con quote di mercato crescenti, nonostante tutto. Spesso hanno un'istruzione limitata, ma intuiscono i nuovi canoni scientifici e le loro ricadute sui processi industriali prima dei tecnologi del Mit di Boston. È da loro che l'Italia riparte.